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SORRISI DEL MALE: l’orribile verità su questa foto “normale” delle guardie di Auschwitz

SORRISI DEL MALE: l’orribile verità su questa foto “normale” delle guardie di Auschwitz

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SORRISI DEL MALE: l’orribile verità su questa foto “normale” delle guardie di Auschwitz

 

In un’immagine apparentemente innocua, un gruppo di uomini in uniforme posa con sorrisi radiosi accanto a una piscina scintillante, circondato da donne in costume da bagno estivo che ridono e alzano le braccia in un gesto di spensierata celebrazione. Il sole splende sui loro volti rilassati, catturando un momento di svago che potrebbe appartenere a qualsiasi vacanza in famiglia del dopoguerra. Ma questa fotografia, scattata nell’estate del 1944, non evoca ricordi idilliaci della spiaggia o dei pomeriggi in piscina.

 Appartiene a un album segreto che svela la doppia vita dei carnefici di Auschwitz, il più grande centro di sterminio nazista dove perirono più di un milione di persone. Dietro quei sorrisi si nasconde una macchina di morte che funzionava a pieno regime, e questa verità inquietante ci costringe a chiederci come il mostruoso possa mascherarsi da vita quotidiana.

L’album in questione, noto come “Album Höcker”, è uscito dalle mani di Karl Höcker, un ufficiale delle SS arrivato ad Auschwitz il 13 maggio 1944 come vice del comandante Richard Baer. Höcker, un ex impiegato di banca che viveva una vita insignificante nella Germania prebellica, divenne un ingranaggio essenziale nella “soluzione finale”. Il loro arrivo coincise con l’apice dell’orrore nel campo: in soli 55 giorni, i nazisti gasarono più di 350.000 ebrei ungheresi, molti dei quali donne e bambini strappati dalle loro case a Budapest. Nel frattempo, Höcker ha raccolto 116 fotografie che non documentano camere a gas o fosse comuni, ma piuttosto feste, canzoni e scappatelle all’aperto. L’album fu scoperto nel 1946 da un ufficiale dell’intelligence americana in un bidone della spazzatura in un appartamento abbandonato di Francoforte e decenni dopo, nel 2007, donato al Museo commemorativo dell’Olocausto degli Stati Uniti.

 

Queste immagini, analizzate esaurientemente da storiche come Rebecca Erbelding dello stesso museo, dipingono un ritratto agghiacciante di perversa normalità. In una delle foto più iconiche, scattata a Solahütte – un resort ricreativo costruito dalle SS a pochi chilometri dalle recinzioni di filo metallico di Auschwitz – Höcker e i suoi colleghi posano in piscina con espressioni di pura gioia. Le donne, le segretarie e le assistenti delle SS si rinfrescano nell’acqua mentre gli uomini, direttamente responsabili della selezione delle vittime per le camere a gas, chiacchierano animatamente.

Erbelding, che ha trascorso mesi a identificare le persone ritratte, ricorda il momento in cui ha riconosciuto il famigerato Josef Mengele, “l’angelo della morte”, in uno degli scatti: “Non avevo visto treni o qualcosa che riconoscessi. Era la terza volta che giravo le pagine. E poi l’ho visto: Josef Mengele.” Nessuna fotografia precedente aveva catturato il medico nazista ad Auschwitz, l’uomo che eseguiva esperimenti sadici su gemelli e prigionieri, selezionando freddamente chi sarebbe vissuto un altro giorno e chi sarebbe morto quello stesso pomeriggio.

Il contrasto tra la gioia delle foto e l’invisibile agonia dei prigionieri è ciò che rende questo album un documento devastante. Mentre gli ufficiali delle SS cantavano canti natalizi attorno a un albero di Natale nel dicembre 1944 – quando il freddo gelava i corpi scheletrici dei detenuti durante le marce della morte – migliaia di anime venivano cremate in crematori che funzionavano incessantemente. In un’altra immagine, Höcker offre mirtilli ai suoi segretari, uno dei quali finge lacrime di finta tristezza per essere stato appena lasciato indietro.

“Ci sono mirtilli qui”, si legge nella didascalia sotto la foto, un dettaglio banale che Erbelding descrive come un brutale promemoria della disconnessione umana. Fuori dall’inquadratura, il fumo dei camini si alzava come un velo sulla valle della Vistola, portando con sé le ceneri di intere famiglie.

Questa apparente banalità del male, come la definì la filosofa Hannah Arendt nel suo articolo sul processo Eichmann, trova eco nelle parole dei sopravvissuti che calcarono lo stesso terreno contaminato. Irene Weiss, una prigioniera di 13 anni arrivata ad Auschwitz nel maggio 1944 – lo stesso mese di Höcker – perse i suoi genitori e quattro fratelli nelle selezioni iniziali. Costretta a frugare tra gli effetti personali dei nuovi arrivati ​​vicino alle camere a gas, Weiss osservò donne e bambini mandati a morte senza un accenno di compassione sui volti dei suoi carcerieri. “Le lacrime sono un dolore normale”, confessa Weiss in un’intervista al museo, con la voce ancora carica della rassegnazione appresa con orrore.

Riguardo alle guardie, aggiunge senza esitazione: “È stato insegnato loro che lo facevano per uno scopo più alto. Sapevo che erano animali”. La loro testimonianza, registrata in video, evidenzia come questi uomini e donne, fotografati in pose di cameratismo, vedessero gli ebrei non come esseri umani, ma come una piaga da debellare in nome di un Reich millenario.

Il drammaturgo Moisés Kaufman, il cui padre e i cui zii furono vittime di Auschwitz, si confrontò con queste immagini durante la creazione dell’opera teatrale “Here There Are Blueberries”, direttamente ispirata all’album. Kaufman, la cui famiglia ebrea fu decimata nelle deportazioni ungheresi del 1944, descrive l’impatto viscerale dei sorrisi nelle foto: “Vederlo così chiaramente articolato in una fotografia è terrificante. È terrificante perché tutti ci somigliano così tanto”.

Insieme alla sua collaboratrice Amanda Grunich, Kaufman esplora nello spettacolo come questi carnefici non si svegliassero ogni mattina pianificando atrocità, ma piuttosto giustificando la loro routine con credenze ideologiche. “Non si svegliavano pensando: ‘Sono un mostro malvagio, farò cose mostruose’. Si svegliavano ogni giorno e vivevano le loro vite piene di giustificazioni e convinzioni in quello che facevano”, spiega Grunich, evidenziando la sottile erosione dell’empatia che l’Olocausto ha permesso.

L’eredità dell’album Höcker trascende le pagine ingiallite conservate in un caveau climatizzato nel Maryland. Ha ispirato mostre, documentari e dibattiti su come il nazismo reclutò persone comuni – banchieri, segretari, musicisti dilettanti – per compiere il genocidio.

Tilman Taube, nipote di un medico delle SS che visitò Auschwitz e mandò a morte migliaia di persone, riflette su questa eredità familiare in termini di responsabilità collettiva: “Ci sono ancora molti fatti da scoprire. Vuoi far parte di un movimento che aiuta a evitare che cose del genere si ripetano”. La sua voce, venata di vergogna generazionale, ci ricorda che l’orrore non si esaurisce con la liberazione del campo il 27 gennaio 1945, ma persiste piuttosto nella necessità di monitorare le ombre della normalità.

Oggi, guardando quella foto “normale” delle guardie di Auschwitz, non vediamo solo sorrisi congelati nel tempo, ma uno specchio che riflette la fragilità dell’umanità. In un mondo in cui l’odio dilaga sui social network e discorsi velati, l’album ci avverte: il male non sempre ruggisce; a volte, sorridi e basta.

E in quel sorriso radioso accanto alla piscina della Solahütte batte il polso di un milione di assenze, a eterno ricordo che l’indifferenza è il primo passo verso la complicità.